LICENZIAMENTO PER INDEBITA UTILIZZAZIONE DEI PERMESSI PREVISTI DALLA LEGGE N. 104/1992

CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 18 febbraio 2019, n. 4670

Licenziamento per indebita utilizzazione dei permessi previsti dalla legge n. 104/1992 – Sono leciti i controlli, demandati dal datore di lavoro ad agenzie investigative, quando non riguardino l’adempimento della prestazione lavorativa, ma siano destinati a verificare comportamenti che possano configurare ipotesi penalmente rilevanti od integrare attività fraudolente, dannose per il datore stesso.


RILEVATO CHE

1.1. con sentenza n. 536/2017 la Corte d’appello di Napoli, decidendo sul reclamo proposto ai sensi della I. n. 92/2012 da R. P. nei confronti della F. S.p.A., confermava la pronuncia del Tribunale partenopeo che aveva rigettato l’opposizione del P. avverso la pronuncia resa nella fase sommaria con cui era stato respinto il ricorso del predetto inteso ad ottenere la declaratoria d’illegittimità del licenziamento intimatogli in data 20 marzo 2015;

1.2. il P., dipendente della F. S.p.A. dal 12 gennaio 2004 e inquadrato nel 4° livello del c.c.n.l. per i lavoratori dell’industria alimentare, era stato licenziato in relazione alla contestazione di una indebita utilizzazione dei permessi ex legge n. 104/1992 nei giorni 22, 23 e 24 dicembre 2014 nonché 22 e 23 gennaio 2015 e 5 febbraio 2015;

tale indebita utilizzazione era emersa a seguito di quanto appreso dalla società datrice per il tramite di un’agenzia di investigazione privata che, con riferimento agli indicati giorni, aveva riferito che il P., anziché prestare assistenza al proprio familiare per il quale usufruiva dei permessi, aveva svolto attività varie di tipo personale (presso esercizi commerciali ed altri luoghi comunque diversi da quello deputato all’assistenza);

1.3. il Tribunale, pur scorporando dalla contestazione i giorni 22, 23 e 24 dicembre nei quali l’azienda aveva deciso di sospendere l’attività lavorativa per le festività natalizie, riteneva, quanto ai fatti accaduti il 22 e 23 gennaio nonché il 5 febbraio 2015, che, legittime essendo le investigazioni disposte dall’azienda, si trattasse di comportamenti così gravi da giustificare la massima sanzione espulsiva;

1.4. la Corte territoriale svolgeva il medesimo ragionamento;
in particolare, richiamato quanto da questa Corte affermato nelle decisioni n. 4894/2014 e n. 19955/2014, riteneva pienamente legittimo il controllo finalizzato all’accertamento dell’utilizzo improprio dei permessi ex I. n. 104/1992 dal momento che lo stesso non riguardava l’adempimento della prestazione, essendo effettuato al di fuori dell’orario di lavoro ed in fase di sospensione dell’obbligazione principale di rendere tale prestazione;
in conseguenza riteneva utilizzabili gli esiti di tale investigazione e così anche delle dichiarazioni testimoniali rese dagli investigatori che avevano effettuato i controlli rilevando la tardività delle deduzioni del reclamante in ordine alla mancanza della licenza prefettizia in favore dell’agenzia investigativa incaricata degli accertamenti;
considerava, poi, pienamente fondati gli addebiti relativi alle sopra indicate tre giornate (solo nel giorno 5 febbraio e per un limitato arco temporale – dalle 11.30 alle ore 13.05 – era emerso che il P. si era sicuramente recato presso l’abitazione del parente che assisteva) escludendo ogni rilevanza, al fine di contrastare quanto accertato e riferito dagli investigatori, degli elementi, asseritamente di segno contrario, forniti dal P.;

riteneva integrato un abuso del diritto di cui all’art. 33 della I. n. 104/1992 in violazione dell’affidamento riposto nel dipendente ed integrante una condotta così grave da giustificare l’adottato provvedimento pur in assenza di precedenti disciplinari;

2. per la cassazione della sentenza ricorre R. P. con due motivi.

3. la F. S.p.A. resiste con controricorso;

4. il ricorrente ha depositato memoria.

CONSIDERATO CHE

1.1. con il primo motivo la ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione di norme di diritto (legge n. 92/2012, art. 1, co. 51, 58 e 59, art. 414 cod. proc. civ. e 345 cod. proc. civ.);
lamenta che la Corte territoriale abbia erroneamente ritenuto la decadenza in capo al lavoratore con riguardo alla nullità delle disposte indagini investigative svolte da soggetti privi delle licenze prefettizie, non trattandosi di eccezione in senso stretto bensì di mera difesa;
rileva che il divieto di nuove eccezioni non risulta previsto con riguardo al reclamo introdotto dalla I. n. 92/2012, art. 1;
evidenzia che conseguenza del dedotto vizio è l’erronea applicazione del criterio di ripartizione dell’oni/s probandi in tema di licenziamento atteso che la Corte territoriale ha posto a fondamento della propria decisione dichiarazioni testimoniali rese da soggetti in relazione ai quali non era stata provata la legittima qualità di investigatori privati;

1.2. il motivo è infondato;

la questione della nullità delle disposte indagini investigative in quanto svolte da soggetti privi delle licenze prefettizie, lungi dall’integrare una mera difesa fondata sugli stessi elementi di fatto già dedotti dinanzi al giudice di prime cure, essendo attinente al merito della lite e fondata su circostanze diverse ed ulteriori rispetto a quelle prospettate nella pregressa fase innanzi al Tribunale (come tale, secondo la stessa prospettazione del ricorrente, idonea a condizionare i poteri decisori del giudice), inseriva nel processo un nuovo tema di indagine, sul quale non si era formato in precedenza il contraddittorio ed era pertanto inammissibile in sede di reclamo, avente natura di impugnazione (v. Cass. 9 settembre 2016, n. 17863) ed essendo soggetto alla regola del divieto dei “nova” di cui all’art. 437 cod. proc. civ.;

2.1. con il secondo motivo il ricorrente deduce l’illegittimità delle indagini investigative compiute dalla parte avversa, la violazione del principio di libertà e della riservatezza del lavoratore (art. 360, co. 1, n. 3 cod. proc. civ.);

2.2. il motivo è infondato;

come da questa Corte già affermato, i controlli, demandati dal datore di lavoro ad agenzie investigative, riguardanti l’attività lavorativa del prestatore svolta anche al di fuori dei locali aziendali, non sono preclusi ai sensi degli artt. 2 e 3 st. lav., laddove non riguardino l’adempimento della prestazione lavorativa, ma siano finalizzati a verificare comportamenti che possano configurare ipotesi penalmente rilevanti od integrare attività fraudolente, fonti di danno per il datore medesimo (v. Cass. 12 settembre 2018, n. 22196; Cass. 11 giugno 2018, n. 15094; Cass. 22 maggio 2017, n. 12810);
è stato precisato che le dette agenzie per operare lecitamente non devono sconfinare nella vigilanza dell’attività lavorativa vera e propria, riservata, dall’art. 3 dello Statuto, direttamente al datore di lavoro e ai suoi collaboratori, restando giustificato l’intervento in questione non solo per l’avvenuta perpetrazione di illeciti e l’esigenza di verificarne il contenuto, ma anche in ragione del solo sospetto o della mera ipotesi che illeciti siano in corso di esecuzione (v. Cass. 14 febbraio 2011, n. 3590; Cass. 20 gennaio 2015, n. 848);
né a ciò ostano sia il principio di buona fede sia il divieto di cui all’art. 4 dello Statuto dei lavoratori, ben potendo il datore di lavoro decidere autonomamente come e quando compiere il controllo, anche occulto, ed essendo il prestatore d’opera tenuto ad operare diligentemente per tutto il corso del rapporto di lavoro (cfr. 10 luglio 2009, n. 16196);
è stato in particolare ritenuto legittimo tale controllo durante i periodi di sospensione del rapporto al fine di consentire al datore di lavoro di prendere conoscenza di comportamenti del lavoratore, che, pur estranei allo svolgimento dell’attività lavorativa, siano rilevanti sotto il profilo del corretto adempimento delle obbligazioni derivanti dal rapporto di lavoro, che permane nonostante la sospensione (si vedano con riferimento ai controlli disposti nel corso di una malattia Cass. 26 novembre 2014, n. 25162 e Cass. 22 maggio 2017, n. 12810 e con riferimento alla fruizione dei permessi ex legge n. 104 del 1992, Cass. 6 maggio 2016, n. 9217 e Cass. 4 marzo 2014, n. 4984; quest’ultima ha in particolare evidenziato che il comportamento del prestatore di lavoro subordinato che, in relazione al permesso ex art. 33 I. n. 104/1992, si avvalga dello stesso non per l’assistenza al familiare, bensì per attendere ad altra attività, integra l’ipotesi dell’abuso di diritto, giacché tale condotta si palesa, nei confronti del datore di lavoro come lesiva della buona fede, privandolo ingiustamente della prestazione lavorativa in violazione dell’affidamento riposto nel dipendente ed integra nei confronti dell’Ente di previdenza erogatore del trattamento economico, un’indebita percezione dell’indennità ed uno sviamento dell’intervento assistenziale);
3. il ricorso deve, pertanto, essere rigettato;
4. le spese del presente giudizio seguono la soccombenza e sono liquidate nella misura di cui al dispositivo.
5. va dato atto dell’applicabilità dell’art. 13, co. 1 quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, co. 17, legge 24 dicembre 2012, n. 228.

P Q M

Rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del presente giudizio che liquida in euro 200,00 per esborsi ed euro 4.000,00 per compensi professionali, oltre accessori come per legge e rimborso forfetario in misura del 15%.
Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis, dello stesso articolo 13.

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